La signora dei melograni

Da quando era arrivata a Parigi Tania aveva fatto l’abitudine a certe apparizioni regolari. Tutte le mattine alle 7 e 45, nel mentre si aggiustava con il phon i capelli sistemati in boccoli, si affacciava alla finestra. Il primo a passare era un pescivendolo basso e largo, che si faceva annunciare col suo furgone dando due sonori colpi di clacson. Poi era la volta del signor Alembert, il decano dei baristi. L’ultimo negozio ad aprire intorno alle 7 e 50 era il fruttivendolo Fontaine, dentro cui lavorava una gentilissima signora di mezz’età. Tania l’aveva soprannominata “la Signora dei Melograni” perché, durante l’autunno, li teneva sempre in bella vista su alcuni cesti di vimini che aveva intrecciato e dipinto lei stessa. Quando entravi in negozio ne aveva sempre uno aperto sul bancone di legno dove tagliava la verdura migliore per le zuppe. Melograni grossi, rotondi e dalla buccia spessa, accesi dei colori caldi della passione dell’autunno. Spaccati a mano come forme di formaggio molto stagionato, all’interno brillavano le loro piccole pepite di color rosso rubino. Annette, ogni volta che qualche cliente più simpatico entrava in bottega, si faceva trovare pronta con la dolce mano protesa in avanti ad offrire qualche chicco pulito del prezioso melograno.

“Fa bene all’amore, prendine… prendine cara, ti farà trovare il giusto vigore”. E lo diceva senza malizia, come fosse normale, nel mentre continuava attenta le sue faccende. Parlava poco con i clienti, ma a volte sembrava che, più che vendere verdure, il suo compito fosse quello della maga, della curatrice. Individuava nel fondo degli occhi dei clienti alcuni indizi essenziali sulla loro vita sessuale. Se erano a stecchetto già da un po’ di tempo, se ci davano regolarmente ma con poco coinvolgimento, se erano troppo appagati e avevano bisogno di nuove energie a livello alimentare.
Apriva i suoi contenitori di vetro, tirava fuori il suo pesto, tagliava lo zenzero, la curcuma, selezionava i capsicum chinense migliori, imbarattolava e consegnava nelle mani dei clienti i suoi meravigliosi triti, i suoi condimenti ed intrugli.
Insomma, la signora Annette, che doveva avere quasi sessant’anni, aveva gli occhi dolci e puri di una bambina e viveva immersa tra le sue piante, i suoi preparati di erbe aromatiche ed i consigli sulla vita sessuale che dispensava a persone di cui conosceva a malapena l’inclinazione o meno al consumo dei pomodori.

Uscita di casa, Tania ci metteva solo cinque minuti per raggiungere il suo ufficio, perciò la mattina poteva muoversi senza troppi affanni, attenta al paesaggio circostante. Dopo la fila dei tigli all’angolo con i boulevard più grandi, si fermava sempre a salutare con un bacetto veloce ed affettuoso il fioraio, sua unica scintilla amorosa in quei primi sei mesi di permanenza a Parigi. Per sedurla lui non ci aveva messo molto. Dopo averla conosciuta le aveva fatto trovare ogni mattina, per almeno una settimana, un piccolo e delizioso bouquet. Una mini composizione di fiori secchi e freschi da viaggio, da tenere comodamente in mano o sulla cima della borsa. In quei giorni lei aveva potuto fare il suo ingresso trionfante in ufficio. Non era più solo la stagista sfigata trentaseienne italiana venuta a preparare i caffè al capo.
Quei bouquet le erano piaciuti così tanto che, quasi per ricompensare il fioraio – un uomo maturo sui quarantacinque anni di nome Pierre, alla prima occasione gli aveva fatto un pompino. Era un sabato e Tania usciva da lavoro di tardo pomeriggio. Lui si era fato bello e aveva tirato giù la saracinesca del suo chiosco. In mano teneva un’unica, bellissima, rosa purpurea variegata di bianco. I due si erano incontrati non troppo per caso e si erano fermati a bere due biere blanches accompagnati da qualche crostino di patè di fegato d’oca presso un noto bar lì di fronte. Poi lui era andato a far pipì e lei l’aveva seguito senza farsi notare. Una volta dentro al bagno si era fatta aprire e gli si era avventata sulla cappella. Il fioraio era come impazzito a quella visione, la coda di cavallo di una giovane puledra italiana che lavorava con le sue labbra carnose sul suo cazzo, lo mandò in estasi. Certo, ci aveva sperato di combinare qualcosa con quella ragazza così buia e sola, che aveva cercato di far sorridere di nuovo con i suoi magici bouquet… ma non così presto! Dopo circa tre minuti, a Tania cominciava a far male la schiena perché se ne stava troppo piegata nel bagno stretto nel suo tailleur nero ultra-aderente. Cominciò a morsicare con maggiore veemenza la cappella di Pierre ed in pochi secondi lui capitolò e lui ottenne un rigolo cremoso di sperma caldo che le colava lentamente dalla bocca fin sotto il collo. Non era tanto. Ma era buono.

Dopo quella volta lei aveva scoperto che il suo pene così tondo e buono da starle i bocca, nella figa quasi non si sentiva, non faceva effetto. Lui poveraccio aveva provato con vigoroso ardore a scoparla in ogni modo, con il suo pene che a stento in erezione raggiungeva i dieci centimetri, ma quasi sempre si affannava per nulla.

Una sera di inizio primavera Tania entrò dalla Signora dei Melograni chiedendo un chilo dei migliori porri, per preparare una zuppa. Nel locale risuonava dal retrobottega l’eco di una pentola che cuoceva lenta, accompagnata da un profumo lieve di verdure e sugo, come di caponata.
“Oggi Patrice fa la ratatouille, passa, fai un salto a trovarlo, ne sarà felice” fece Annette aprendo il banco per farla entrare in cucina.
Tania entrò aprendo gli occhi per lo stupore. C’era un grande magazzino con barattoli, contenitori, tini, era tutto magicamente ordinato che sembrava di essere nelle cantine di una villa di campagna. Patrice salutò con un baciamano l’ospite e la invitò ad accomodarsi su una tavola apparecchiata alla meglio. All’una in punto Annette chiuse la saracinesca del negozio, raccolse alcuni dei suoi melograni e li raggiunse per pranzo.
Era la ratatouille più buona che avesse mai mangiato. Alla fine, dopo il caffè, Annette abbassò le luci… “Vieni Patrice, prendi una melograna”. Di colpo la signora cominciò a spogliarsi. Si tolse le scarpe, i pantaloni, la maglia e il reggiseno e rimase con le sole calze di nylon opaco di color marrone scuro. Si sdraiò sul divano chiamando a sé con le mani il marito. Lui arrivò con la melograna in mano e si mise a spezzarla proprio all’altezza del suo pube. Non appena il frutto si fu sfatto, Patrice prese a masticarlo direttamente sulla patonza della moglie, sbranandole a morsi le calze. Il succo rosso come il sangue scivolava giù dalla bocca fin sul petto aperto e visibile dalla camicia sbottonata.
Tania cominciava a sentirsi un po’ a disagio e fece per prendere le sue cose, ma di colpo l’ortolana la trattenne e la invitò ad unirsi alla coppia in un menage-a-trois.
“Vieni che te la lecco…” fu la prima cosa che disse dopo essersi messa un cuscino dietro la testa, nel mentre Patrice continuava a frullarle con la lingua la passera facendo sobbalzare il clitoride. Tania non aveva mai avuto rapporti lesbici, ma dopo pochi secondi, non appena sentì la lingua della signora, sparì dalla sua testa ogni dubbio. Annusando nell’aria un miscuglio di odori di sessi diversi e ratatouille, venne dopo pochi minuti contraendo i muscoli sotto i colpi della lingua della signora Annette.

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